Un libro sconcertante. Scritto, forse, appositamente per sconcertare. Per prima cosa, colpisce la forma: complessa, frammentaria, delirante, “sporca”. Molte pagine sono il frutto di un flusso di coscienza assolutamente privo di qualsiasi aggancio a una trama che possa definirsi strutturata in senso stretto. Episodi della dissoluta vita del protagonista/narratore/scrittore si alternano, infatti, a riflessioni che sembrano essere state scritte su tovaglioli di carta di qualche squallida bettola o di qualche oscuro lupanare durante le frenetiche notti parigine, il tutto cucito insieme in un libro spezzettato, un collage di vite, di personaggi, di sensazioni, di sesso, di disagi e di solitudini. La protagonista principale di questo libro sembra essere Parigi, una città in cui si aggira un Miller, inquieto vagabondo, alla perenne ricerca di qualcosa di indefinibile e profeticamente in attesa dell’imminente catastrofe che di lì a poco avrebbe sconvolto il mondo. Henry Miller non solo descrive la Parigi di quell’epoca (gli anni '30), piena di poveracci in cerca di una ricca vedova da sposare e artisti bohemiens che si ritrovano al caffè, prostitute esotiche, truffatori squattrinati e marinai con la gonorrea, ma la idolatra, la venera come una grande madre al cui seno non si può sfuggire. Nota: l’edizione che ho letto fa parte di un cofanetto Oscar Mondadori contenente Tropico del Cancro e il successivo Tropico del Capricorno, con la meravigliosa traduzione di Luciano Bianciardi, e uno scritto critico di George Orwell su Miller e sulla letteratura anglosassone del primo dopoguerra.
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